Che idea si è fatto dell’immediato futuro del settore dell’arredo?

È un grande punto di domanda. Il salone è programmato per settembre e questo cambia totalmente la strategia delle aziende. Il Salone del mobile è il momento più importante a livello internazionale ed è diventato il punto di riferimento per chiunque debba farsi una casa. E come italiani abbiamo interesse a che il design italiano resti il punto di riferimento nel mondo. Quest’anno ci siamo arrangiati e per quello che io sento, le aziende con cui lavoro arriveranno a fine anno avendo recuperato molto bene, con una riduzione di bilancio ma con un venduto abbastanza simile a quello dell’anno scorso. Ed è vero che il digitale ha grandi spazi di crescita ma, la situazione analogica non si può sostituire. È una questione di atmosfera, il caldo, il freddo, la luce, le ombre, il tatto. Il Salone del mobile è una liturgia: vi si presentano le nuove collezioni, da lì parte un calendario abbastanza specifico che si segue fino al Salone successivo. E porta le nuove collezioni nei negozi all’inizio dell’autunno: è un timing abbastanza preciso. Quindi se il Salone si sposta a settembre, cambia tutto il timing: presenterò la collezione 2021 oppure 2022? E se presento la collezione 2022, per il 2021 presento qualcosa oppure niente? E se il Salone dovesse di nuovo saltare?

Nell’immagine, il daybed Jungle di  Massimo Castagna per  Exteta

 Jungle by Exteta

Si tratta naturalmente di tematiche con cui lei, in veste di direttore artistico, è costretto a confrontarsi. Alla luce di questo aspetto, il ruolo di progettista puro consente maggiore libertà di movimento rispetto a quello di direttore artistico?

La prima cosa che si affronta da direttore artistico di un’azienda, è la definizione della personalità e della direzione che l’azienda vuole prendere. L’azienda ha tante sfaccettature, dall’approccio industriale al target di mercato, alla comunicazione, al modo di presentare i prodotti. Le aziende possono essere molto diverse tra loro, ad esempio se sono aziende patronali hanno una strategia molto diversa dalle aziende che sono state acquisite da fondi. Nelle prime l’elemento “passionale” è più forte rispetto all’elemento finanziario. E anche le tempistiche sono diverse. I padri fondatori del nostro design erano dei pazzi visionari che hanno fatto le cose con una passione incredibile e hanno creato il design italiano e l’hanno reso importante nel mondo. Da Cassina a Busnelli ad Acerbis che pur essendo un’azienda più piccola ha avuto un padre fondatore, Ludovico Acerbis, fortemente visionario. I miei genitori avevano un’azienda terzista di mobili di metallo, erano gli anni ’60 e un giorno arrivò un signore di un’azienda della Brianza con un cassonetto di metallo che mia madre trasformò in un mobile di metallo. Quel signore era Osvaldo Borsani e l’azienda era la Tecno. Era il 1967, l’anno dopo, nel 1968 quel cassonetto divenne compasso d’oro, era Graphis. Erano gli anni in cui nelle case c’erano gli arredi similclassici e comparivano i televisori della Brionvega in plastica che sembravano delle astronavi tra gli arazzi delle case borghesi. Oggi invece faccio fatica a ritrovare questo coraggio. Tornando alla domanda la prima cosa da fare è avere chiarezza di ciò che si vuole essere e questa è la prima differenza tra l’approccio del designer e del direttore artistico. Il designer è creativamente più libero di interpretare le cose a modo suo, il direttore artistico deve tenere il timone fermo verso una direzione.

Da direttore artistico di  Ceccotti Collezioni ho avuto la possibilità di lavorare con otto designer con cui abbiamo costruito le collezioni. È una grande eccellenza, fortemente legata al legno e io l’ho spostata verso produzioni più multimateriche perché la casa interamente in legno non esiste più neanche a Cortina. Nella collaborazione con questi designer il prodotto doveva rispecchiare la personalità del designer ma in modo che non fosse prevalente rispetto a quella dell’azienda. Abbiamo affrontato la collezione pensando a una casa arredata con pezzi di modernariato per cui, ad esempio, il designer che avrebbe fatto il tavolo non avrebbe fatto anche la sedia, quello che faceva la sedia non doveva fare la madia, quello che faceva il divano non doveva fare la poltrona perché i pezzi dovevano essere disegnati da mani e personalità diverse ma legati tra loro in modo da stare bene insieme. In questa occasione abbiamo, ad esempio, accostato Jayme Hayon e Vincenzo De Cotiis. Ed è questo il lavoro del direttore artistico.

Nell’immagine il  Grand Buffet e il tavolo  Maxwell di  Massimo Castagna per  Acerbis

Grand Buffet and Maxwell by Acerbis

Pur nella estrema varietà dei suoi progetti, c’è una ricorrente gentilezza, una forma di onestà e rispetto nei confronti di chi li sceglie per la propria casa. Qual è il percorso progettuale che porta a questo risultato?

La prima cosa che faccio è la ricerca sulla materia, che è parte integrante di un progetto. Ha un’espressività propria fortissima quindi poter lavorare facendo ricerca sulla materia è meraviglioso. Il mondo delle pietre, è un mondo immenso. Andiamo a prendere materiali che non sono sul mercato, per i quali si compra tutta la cava. Sono stato in toscana e abbiamo trovato una breccia medicea dell’acqua santa, una pietra con cui i Medici facevano realizzare le acquasantiere nelle chiese. Abbiamo trovato una cava piccolissima, l’abbiamo comprata tutta. L’espressività della materia in questi casi è potentissima e il materiale ti suggerisce cosa fare. E da questo punto di vista Henge è forse l’azienda più avanti di tutte. Abbiamo trovato qualche anno fa una fotografia piccolissima di una specie di radica, la radica non la usa più nessuno dai tempi dei tavoli di Scarpa. Abbiamo scoperto che non è radica ma la parte che sta tra radice e tronco, che normalmente è scarto. Abbiamo trovato l’unica persona che ancora sapeva lavorare questo materiale che viene ritagliato a mano in pezzettini che poi vengono ricomposti e rincollati a formare dei fogli con cui abbiamo realizzato un tavolo.

Nell’immagine il tavolo  Penny di  Massimo Castagna per  Henge

Penny by Henge

Lei firma progetti architettonici per abitazioni di livello molto alto. Quali sono le esigenze dei committenti in questi casi?

Il primo aspetto da considerare è la differenza nella base culturale delle persone, ho avuto la fortuna di lavorare in diverse parti del mondo e ho capito che lavorare con un americano o lavorare con un arabo sono due situazioni molto diverse. I modi di vivere le case sono diversi e le dimensioni sono gigantesche. In Italia una bella casa non supera di solito i 400 mq, all’estero arriviamo a 3000, 4000 mq. E l’approccio è diverso. Un esempio? Hanno una cucina per lo chef e una “show kitchen” per esibirsi ai fornelli con gli ospiti. Esistono dei family living dove la famiglia si ritrova e poi hanno la zona per stare con gli ospiti. Hanno tante camere da letto e poi la principale che è una master ed è un insieme di cose, non una semplice camera. A questo poi si aggiungono tante aree specializzate, come la sigar room, il fitness, il benessere. E poi c’è il garage, in cui il proprietario magari ha tre, quattro automobili, spesso italiane di altissima gamma. Quindi si devono considerare tutti questi aspetti, senza sforare nel “luxury”, un termine che non sopporto che mi riporta all’ostentazione.

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