Nato in provincia di Cremona, Giulio Iacchetti , 54 anni è un progettista schietto, centrato e ben radicato. Progetta per Alessi, Artemide, Fontana Arte, Foscarini, Ifi, Magis, solo per citarne alcuni. Non ama le passerelle, non condivide le campagne d’odio contro la plastica e proclama, piuttosto, un ritorno alla progettazione di sostanza e alla produzione di qualità, perché un mobile di qualità ha vita lunga, lunghissima, ed ecco perché è davvero sostenibile. Direttore artistico di Danese Milano e di Interno Italiano, ci racconta gli elementi che caratterizzano queste due realtà, lasciando trasparire la sua visione del progetto e la sua idea di qualità.

Pensi che l’esperienza del COVID 19, nel suo complesso, avrà dei risvolti positivi?

Noi dobbiamo pensare che ci sia un risvolto positivo da tutta questa esperienza, non possiamo darci un’alternativa e pensare che sarà peggio. Ed è anche parte del nostro lavoro cogliere in tutta questa precarietà, in questo crollo delle nostre certezze, degli spunti per ripensare meglio tutto ciò che siamo stati e che dovremmo essere. Non conosco la formula magica e ritengo che slogan come “tutto andrà bene” non significhino nulla: bisogna operare già da adesso affinché tutto vada bene o addirittura meglio. Quindi impegnandoci ogni giorno non con formule magiche ma con quello che sappiamo fare.

Quanto tempo riesci a dedicare alla tua ricerca personale, alla tua creatività e quanto di questa ricerca riesci a trasferire nel lavoro che fai per le aziende?

Per me non sono due ambiti separati: il lavoro quotidiano che risponde a delle richieste specifiche va, in realtà, ad alimentare il pensiero libero. Quindi è un continuo fluire di idee, una continua osmosi tra il pensiero pratico e l’idealità. Guai a pensare che ci possano essere dei compartimenti stagni tra queste due dimensioni del progetto. Nell’immagine: coffee table Beleos  di Giulio Iacchetti per  Bross

Beleos by Bross

Quando un’azienda ti chiama che cosa si aspetta da te, in particolare?

Quando un’azienda mi chiama io so bene una cosa: che quello che mi chiedono non è quello che vogliono! Quello che chiedono è il loro tentativo di descrivere l’impalpabile, l’insondabile. Perché se un’azienda avesse ben chiaro cosa vuole, lo farebbe fare da sé. Il bisogno che descrive l’azienda è un bisogno che va “sgrezzato”, lavorato. Spesso alla fine del progetto si perviene a un risultato completamente diverso, che è l’inaspettato, ed è la parte più bella della vita. Non c’è mai una richiesta specifica ma non è nemmeno un “fai quello che vuoi” ecco perché è importante calarsi nella storia e nella vita dell’azienda, per scovare l’insondabile e farlo emergere. Nell’immagine: lampada Magneto  di Giulio Iacchetti per Foscarini .

Magneto by Foscarini

Parlando in particolare di Danese, c’è un aspetto dell’azienda che hai scoperto e che vorresti far emergere attraverso il tuo ruolo?

Di Danese  mi è chiara una cosa ed è la potenzialità di poter fare tutto, perché Danese è un modo di intendere la vita, che si manifesta nell’intelligenza dei suoi oggetti – e mi riferisco in particolare alla collezione storica. Con la loro capacità non solo di descrivere una funzione ma anche di compiere un gesto amorevole progettuale perché sono portatori di intelligenza, qualità, armonia che rendono la vita un po’ migliore. Quindi con un atteggiamento non nostalgico ma di slancio, pensare di poter andare oltre la progettazione degli oggetti.

Qual è, invece, la peculiarità del progetto Internoitaliano?

Internoitaliano  è nato in un momento in cui si pensava che le eccellenze dell’artigianato italiano fossero delle zavorre rispetto al resto del mondo che viaggiava sul digitale e l’elettronica. E allora abbiamo fondato Interno Italiano con l’idea utopica e un po’ sfacciata di dire no, la nostra ricchezza sta proprio in quelle botteghe e non si può delocalizzare. Quando la sapienza del fare si è tramandata di generazione in generazione in un determinato luogo, questa è una ricchezza che non puoi riconsiderare o tantomeno delocalizzare. E all’epoca abbiamo pensato di lavorare con quegli artigiani che avevano voglia di misurarsi con la scommessa di un progettista che inserisce un cromosoma nuovo di trasformazione. Artigiani in molti casi giovani, perché ci sono tanti giovani che portano avanti la loro attività a partire dalla bottega che magari hanno ereditato. Da queste sapienze abbiamo creato una collezione in cui ciascun oggetto era firmato sia dal designer che dall’artigiano. Nell’immagine: il tavolo Arba  di Giulio Iacchetti per Internoitaliano .

Arba by Internoitaliano

Il designer sta diventando un personaggio pubblico?

Lo è già da tempo, talvolta anche con degli eccessi fuori misura. Nel senso che il nostro tutto sommato è un piccolo mondo e non mi è mai piaciuto questo “star system dei poveri” che si è creato nel mondo della progettazione. Ciò che conta è il valore dell’oggetto, se sa comunicare la sua qualità e poi magari per una piccola porzione di consumatori il nome del designer può fare una piccola differenza, ma ci credo poco. Quindi credo che siano soldi mal investiti quelli investiti nel nome del designer, non siamo a Hollywood e credo che bisognerebbe stare un po’ più in campana e fare un passo indietro. Nell’immagine: la sedia Bek  di Giulio Iacchetti per Casamania .

Bek chair by Casamania

Nel dibattito sulla sostenibilità, oggi sembrano contrapporsi due strade: produrre con materiali riciclabili oppure produrre con materiali durevoli. Ci aiuti a risolvere questa dicotomia?

Questo per me fa parte dello “stupidario” degli ultimi anni, così come la campagna contro la plastica. In questi giorni di emergenza cosa avrebbero fatto gli ospedali a curare le persone se non ci fosse stata la plastica? Certo io stigmatizzo l’utilizzo irresponsabile della plastica e il suo utilizzo senza conoscerne le caratteristiche. Ad esempio non ha senso destinare un materiale così bello a posate e stoviglie monouso che potrebbero essere tranquillamente prodotte in carta, oppure materiale biodegradabile. Per quanto riguarda invece un oggetto in plastica come quelli bellissimi di Alessi o una sedia di Kartell o Magis ad esempio, difficilmente li troveremo nei cassonetti della spazzatura dove invece troviamo le bottiglie di plastica. Fare la guerra agli oggetti di design in plastica mi sembra una guerra persa in partenza: nessuno li butta via! Perché un oggetto di arredo dovrebbe essere in materiale disassemblabile o rigenerabile? Uno scrittoio di Molteni, ad esempio, me lo tengo stretto e poi lo darò ai miei figli. Arredi ben fatti, con materiali di qualità, non perdono valore, anzi lo recuperano. Quindi proviamo a fare oggetti che abbiano valore, fatti bene, con materiali adeguati e corretti nelle proporzioni. Mentre useremo materiali compostabili e biodegradabili e riciclabili per oggetti monouso.

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