Insieme a Marco Romanelli ha collaborato con alcune delle più prestigiose aziende di settore, progettando con grazia e concretezza, ironia e funzionalità, caratteristiche che ritroviamo sia nella produzione di arredi e luci, sia nella progettazione di interni che Marta Laudani porta avanti senza mai dimenticare la componente affettiva del vivere la casa.

Ci dica tre cose di lei che è importante sapere

1) Amo la città più di ogni altro luogo. Per me non esiste meraviglioso paesaggio naturale che valga il fascino di una città in cui camminare e perdersi. Vagare senza meta per le strade, fra gente, luci e palazzi, mi ha sempre dato un incontenibile senso di libertà e felicità, che ogni volta si rinnova. Molto di tutto questo entra poi anche negli spazi interni, e si riverbera sulle scelte di progetto fino alla scala più minuta.

2) Il bianco prima di tutto. Immagino sempre case bianche, arredi bianchi, oggetti bianchi. Mi infonde un senso di calma e serenità, mette ordine nei miei pensieri. E infatti se e dovessi scegliere un luogo in cui meditare, opterei per una grande stanza bianca e vuota. Il colore può esserci (e certamente spesso arriva) anche dopo: d'altronde non è il bianco la somma di tutti i colori?

3) Nel segno di Proust. Penso che nel mio lavoro la “memoria” giochi la sua parte, e i ricordi entrino talvolta in scena. Può essere un'immagine che si sovrappone ad un'altra, il rimando a un oggetto che abbiamo conosciuto nella nostra infanzia e poi dimenticato, un’assonanza con qualcosa di già vissuto. Per questo è poi più facile che le case e i pezzi diventino "d’affezione", perché ritroviamo in loro qualcosa di familiare e consueto, che va oltre le apparenze. Credo che questo atteggiamento aiuti anche a combattere l’abitudine all’usa-e-getta, alla scarsa affezione verso le cose. Vorrei, al contrario, che gli oggetti del nostro panorama domestico tornassero a durare nel tempo, come amate presenze.

Interno by Marta Laudani

Nei suoi progetti riscontro sempre un pizzico di sorpresa, la volontà di far sorridere l’utente, come a voler regalare un momento di gioia, è così o è solo una mia impressione?

E’ proprio così. Ho sempre pensato che ogni progetto potesse avere più livelli di fruizione ed essere come un gioco di scatole cinesi in cui, progressivamente, si scopre sempre qualcosa di inatteso. Per indurre a comportamenti non scontati, stimolare la curiosità, ma anche per regalare un sorriso. Così in una casa di Roma che voleva essere rigorosa e austera, tutti i (tanti) colori sono stati inseriti all’interno dei diversi arredi fissi bianchi, per rivelarsi soltanto ad ogni apertura di anta o di piano-ribalta. Per cui nella cucina sono i gialli, l’arancio e i rossi a far compagnia a piatti, tazze e bicchieri. O nel soggiorno, i diversi lilla rosa e marrone a confrontarsi con libri e dischi. Oppure in un altro interno domestico, sono le immagini fotografiche di antiche statue o quadri a comparire quando meno te le aspetti: dietro ai cappotti appesi all’ingresso, in uno specchio che può celare il viso, nel cassetto del comodino che si usa la sera per riporvi gli occhiali.

Nella progettazione di interni quali sono, secondo lei, le priorità?

Gli abitatori-della-casa, prima di tutto. Con la loro storia e il loro mondo di interessi e sentimenti. Perché sarà soltanto rispetto a queste persone che avremo assolto al nostro compito o fallito. Credo infatti che le case siano, alla fine, sempre dei “ritratti” degli abitanti e che il nostro lavoro di progettisti debba portarne alla luce le peculiarità, assecondando al meglio la vita nei diversi spazi. Nel dire questo, do per scontato che tutti i problemi funzionali, distributivi e tecnologici abbiano trovato la più razionale soluzione. In secondo luogo, c’è sempre la sfida con le difficoltà della preesistenza in cui si va a progettare, non di rado segnata da vincoli e limitazioni. E questa è una sfida che si può vincere in modi differenti. A volte, contrariamente al senso comune, accettando proprio tali limiti e facendoli diventare punti di forza del progetto. Mi viene da pensare ai tanti ardui e invasivi corridoi che ho dovuto fronteggiare nel mio lavoro. Quasi sempre, dopo aver cercato in tutti i modi di eliminarli senza riuscirvi (per motivi statici o distributivi) sono diventati la spina dorsale dell’intervento e la chiave di soluzione del progetto.

Teca by Da a

Pensa che la pandemia abbia generato delle modifiche stabili al nostro modo di vivere la casa e dunque di progettarla?

Questo difficile periodo che stiamo vivendo (e soprattutto il look-down della scorsa primavera) sono stati una specie di stress-test per le abitazioni. Hanno fatto emergere aspetti positivi e negativi degli spazi domestici, enfatizzando entrambi. Perché se da un lato è innegabile che il dover vivere in una casa h24 ha portato ciascuno di noi a considerare quanto sia importante la piacevolezza di ambienti e arredi (e probabilmente avrà indotto molte persone a modifiche e migliorie), dall'altro ci siamo tutti resi conto di quanto gli spazi interni siano in realtà collegati con quelli esterni, dal quartiere alla città in cui si vive. E l’impossibilità di fruirne è stata fonte di sofferenza e disagio, una decurtazione per la casa stessa. Un’ulteriore riflessione riguarda la necessità, che molti hanno sperimentato, di utilizzare i luoghi e gli arredi della casa in più modi. Diverse stanze hanno perso la loro univoca funzione e così i mobili. Tavoli da pranzo non più solo per mangiare, ma anche per studiare (magari in più persone) o per far giocare i bambini; letti non solo per dormire, ma anche per lavorare al computer o leggere un libro, ingressi da cui ricavare un piano d’appoggio in più.

Millerighe by Da a

Ci racconta la genesi di  Teca Millerighe per Da a ?

Questi due progetti, che amo particolarmente e che come Stones sono stati disegnati con Marco Romanelli, nascono insieme a un’azienda fortemente innovativa. Da A è infatti un’industria “pesante” che a un certo punto è diventata anche “leggera” e immaginifica. Piegando il ferro (non solo letterariamente) per renderlo un materiale mutevole, duttile ed espressivo oltre ogni consuetudine. Nel Millerighe (che nasce bianco! ) il disegno è impostato su sequenze di linee sottili, moltiplicate secondo ritmi variabili e ripetuti, come in uno spartito musicale o in un fitto bosco di betulle ove i tronchi ritagliano la luce. Così il ferro diventa trasparente e lieve, gli oggetti contenuti (libri, giornali e riviste) entrano a far parte del disegno complessivo, come catturati da una rete. Un approccio alla geometria fatto di gioco e libertà espressiva. Teca (nelle due versioni di piccolo mobile e comodino) è invece un merletto che nasce dalle forme elementari e ripetute di cerchi e quadrati; un contenitore disegnato per svelare gli oggetti anziché celarli alla vista e al ricordo. Il metallo si smaterializza e il contenitore diventa un “vuoto” che mostra, non più un “pieno” che nasconde. Ricorda le voliere vittoriane e le inferriate di tante architetture del passato, ma introduce all’interno la sorpresa di un vassoio dorato che potrà accogliere gli oggetti più preziosi.

Stones lamp by Oluce

Ci racconta la genesi della lampada  Stones per Oluce ?

Nel mio lavoro di design c’è spesso un forte riferimento alla natura, intesa come fonte inesauribile di ispirazione. Rispetto ad altri progetti, come la lampada Fiore (sempre per Oluce) o il centrotavola Ninfea per Bosa, il riferimento è molto più diretto. Non viene filtrato attraverso meccanismi di semplificazione e geometrizzazione perché questi sassi luminosi vogliono realmente sembrare dei sassi, anche se sono totalmente caratterizzati dalla luce. E infatti, per arrivare alle forme definitive abbiamo dovuto materialmente “scolpire” dei blocchi di polistirolo fino a raggiungere l’effetto desiderato. Di queste lampade esiste una versione da interno in vetro opalino satinato, realizzato a Murano (Stones of glass) e una da esterno stampata in rotazionale (Stones). Ma sempre in tre dimensioni differenti per poter accrescere, nelle composizioni, la sensazione di aver creato un paesaggio naturalistico.

C’è qualche nuovo progetto a cui sta lavorando che vorrebbe raccontarci?

In questo momento, oltre ad un paio di case, sto lavorando a diverse proposte per le aziende con cui collaboro da molti anni, come Fiam, Driade o Bosa. Mi trovo ancora in quella fase iniziale (per me sempre molto stimolante) in cui la ricerca si muove a 360° e a volte prova a forzare i limiti dei brief, per anticipare le richieste del mercato. Ma è ancora presto per parlarne. Da poco di tempo ho invece iniziato la collaborazione con la giovane azienda “Keep life” che ha messo a punto un innovativo e super-ecologico materiale, riciclando gli scarti di gusci dalle varie aziende alimentari. Potrei dire che somiglia al sughero, ma in una forma più ricca, come “terra impastata”. Con una mutevolezza di colore che varia dall’ocra al marrone scuro e che deriva dai diversi tipi di guscio utilizzati. Per me, la piacevole sensazione di lavorare con un materiale quasi primordiale. E infatti in uno dei pezzi che ho disegnato (e che doveva essere presentato alla Dutch Design Week di Eindhoven se il covid non l’avesse fatta annullare) ho immaginato una zolla di terra su cui costruire tanti piccoli paesaggi, piantandovi minimi oggetti metallici. Due tubicini, uno specchietto, un piattino per accogliere, ogni giorno, nuovi frammenti di natura: fiori di prato, conchiglie trovate sulla spiaggia, sassi dal greto di un fiume. Penso infatti che anche l’oggetto più semplice debba nascere osservando la realtà con occhi curiosi, oltre le consuetudini. Dando forma a qualcosa che inizialmente è sfuggente e indefinito. Come in una progressiva “messa a fuoco” che lentamente chiarisce le cose. Perché la mano, in realtà, segue gli occhi, e gli occhi il pensiero.

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